La ballerina è a terra, svenuta, la sua falange continua a innaffiare il pavimento lercio, che come una tela idrofoba respinge l’assorbimento del sangue, estendendolo in semicerchi di impalpabili ondate. Il carnefice (incappucciato) l’afferra per i piedi e la trascina verso la parete che si staglia al di là del nano immobilizzato. Il moncherino traccia un asse rosso–naif che s’imprime nell’orbita dell’inquadratura. L’uomo la solleva tenendola per le caviglie, dopodiché le infilza un gancio tra il malleolo e il tendine d’Achille – esegue la medesima operazione per l’arto speculare – poi l’appende a mezz’aria come quei maiali che fanno da sfondo all’amatoriale splatter. L’occhio dell’obbiettivo si estende lentamente in avanti nella bramosa ricerca di dettagli inediti. Le palpebre della donna si separano l’una dall’altra, scollandosi dal liquido lacrimale; è consapevole che la vittima fortunata è colei che perisce al primo colpo: grida. Quel suono straziato si rovescia e si espande dalle sue labbra spalancate, attraversando in un fremito la traiettoria della messa a fuoco. Sta assistendo alla vivisezione del suo cadavere – ancora vivo – trasmessa in anteprima nello specchio alle nostre spalle.