PLAY sp 00:16:39 [THe iNCIPIT]

PLAY.

L’inquadratura avanza lentamente, si sofferma sul collo taurino del carnefice, oltrepassa il passamontagna borchiato (fetish) di cuoio nero, scivola affannosa sul bicipite nerboruto, annaspa sull’avambraccio nudo, ansima e sfoca sul riverbero della lama che si spegne alla destra dello schermo, infine stringe sul particolare degli occhi della donna. Non c’è più energia in essi, c’è ancora vita, ma non più la forza necessaria per trattenerla. Le sue pupille sono dilatate, disarmate, spoglie. Si disidratano ad ogni battito di ciglia e cadono nel vuoto come petali enervati. Rifluiscono l’avvilimento di organi ormai rassegnati, tuttavia capaci di produrre elevate quantità di orrore. Lo zoom retrocede, si allarga sul viso livido: la sua espressione è la rappresentazione focale di colei che proviene dalle regioni più remote delle nostre angosce: la morte.
Indietro, indietro, ancora indietro, l’obiettivo è un adagio sinfonico: omaggio al male più profondo. La scena si apre come un vangelo, al suo interno fa la sua apparizione un secondo soggetto. Un uomo (forse) con uno strano travestimento. Pochi secondi per permettere ai processi cognitivi di associarlo ad un tacchino. Tacchino? Sì, l’uomo è travestito da tacchino e nelle mani brandisce un machete. Si porta alle spalle della ragazza, s’inginocchia dietro di lei e la immobilizza cingendole un braccio all’altezza del petto. Il machete striscia e sibila sulla pelle cruda, poi si arresta minaccioso sul monte di Venere.
Il tipo incappucciato avanza, gattona sul materasso. Preserva la naturalezza del diavolo e la morbosità dell’essere umano. Ricama con la punta della lama un paio di cerchi attorno ai capezzoli della vittima. Lei non grida, non ne è più cape: vagisce.
La ripresa video chiude rapidamente sull’addome: il coltello è in primo piano, affonda. La carne oppone resistenza, rientra a cono verso se stessa, poi si spacca. Il tessuto risale, lento, infine l’acciaio penetra per intero. Un rivolo di sangue attraversa l’ombelico. Un urlo stridulo fa sfarfallare l’immagine che si capovolge, l’istante dopo si stabilizza. Gli ultimi fotogrammi vanno in loop ciclico. Il terrore risuona cadenzato nelle vibrazioni di un clangore gutturale.

STOP.

Sul display: STOP sp 00:29:17.

– Si blocca qui ispettore Asserramanico.
– Ma tu guarda che casino. Lei dov’è?
– È di là, nella sala degli interrogatori. È sotto shock.
– È sotto shock e la state interrogando? Queste cose ve le insegnano al corso?
– Sì.
– E dove ve lo fanno fare il corso, da mcdonald’s? Pagliacci!
– Ma ispettore Asserram…
– Ma ispettore un cazzo. Ha ferite sul corpo?
– Pulita signore.
– Portatemela subito qui. Questa storia puzza come le scoregge di Oliver Hardy.
– Non sta bene dileggiare le persone grasse ispettore.
– Non dileggio nessuna persona grassa imbecille, le sue scoregge puzzavano veramente. Ma poi tu che cazz… non devo darti spiegazione di niente. Sparisci e torna con la ragazza. Immediatamente!.
– Agli ordini signore.

L’ispettore Asserramanico è americoitaliano. Nel senso che è padre di figli italiani. È un tipo tosto: barba ispida, gilet e maniche della camicia sempre arrotolate, anche con l’aria condizionata. Il classico sbirro che con un tiro riesce a consumare mezza sigaretta senza esalare un filo di fumo. Lo trattiene tutto nei polmoni.
È preoccupato. Generalmente non risolve mai nessun caso semplicemente perché non ne ha voglia, ma quello che ha davanti è un caso veramente difficile da non risolvere. Forse proprio per questo motivo lo vorrebbe risolvere.

La ragazza viene fatta sedere davanti la sua scrivania. È visibilmente scossa: occhi vitrei, trema, tossisce.

– Le dispiacerebbe spegnere la sigaretta signore?
– Mi scusi signorina – ma l’ispettore non la spegne. – Passiamo a noi, quando ha ricevuto questo video tape?
– Ieri signore.
– È l’unico?
– No, il sequestratore…
– Ce ne sono altri signore. – interviene l’agente Laura.
– Portameli!

VHS

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